Ancora una volta le piazze in tutto il mondo si riempiono per manifestare contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. La ripresa del Movimento femminista e transfemminista negli ultimi anni ha dato senso e significato a una data, quella del 25 novembre, creata dalle istituzioni e non scaturita dalle lotte come è stato per l’8 marzo. Tuttavia l’azione delle donne e di tutte le libere soggettività hanno saputo fare di questa data qualcosa di vivo e pulsante, sottratto alla ritualità e alla liturgia delle ricorrenze. Di questo c’era e c’è bisogno, più che di accordi ad alto livello. La convenzione di Istanbul approvata nel 2011 dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa non protegge certo da una violenza che ha radici profonde nella struttura classista della società, alimentata dalle culture sessiste e patriarcali degli stessi stati che fanno parte della Convenzione.
Il dibattito e l’azione concreta del movimento femminista e transfemminista in questi anni sono stati fondamentali ed hanno riconosciuto la violenza maschile contro le donne e le libere soggettività come elemento sistemico che agisce nella sfera delle relazioni personali, familiari, economiche, ma anche nella sfera politica, istituzionale, sociale e culturale. La violenza patriarcale e sessuale non è un problema emergenziale né è legato a motivi geografici o culturali ma è espressione diretta della struttura sessista della società. È una violenza che nell’80% dei casi agisce all’interno delle case e delle famiglie; è una violenza che spesso veste la divisa e usa un’arma di ordinanza; è una violenza raccontata in modo tossico dai mezzi di comunicazione; è una violenza che trova posto negli ospedali e nei consultori popolati di obiettori e di antiabortisti; è una violenza minimizzata o disconosciuta nelle aule dei Tribunali, nelle centrali di polizia, nelle parrocchie, tollerata e assecondata da istituzioni conniventi.
Una violenza che non può essere certamente risolta con “soluzioni” fatte di braccialetti elettronici, spray al peperoncino, codici rossi, castrazioni chimiche o roba del genere, ma solamente da una lotta radicale di sovvertimento sociale e culturale del sistema dominante.
Nel dibattito sulla violenza è entrato potentemente il tema della violenza della guerra e del militarismo, questione che sarà presente in molte piazze del 26 novembre caratterizzate dallo slogan” basta guerre sui nostri corpi “.
Ci uniamo a queste voci con le parole di alcune compagne di NonUnaDiMeno Livorno:
“Come femministe e transfemministe siamo contro la guerra e non certo per uno stereotipo sessista che lega in modo “naturale”le donne alla pace attraverso la maternità ritenendole automaticamente dalla parte della vita e quindi della pace.
Non siamo contro la guerra per vocazione naturale, né perché dobbiamo prenderci maternamente cura dell’umanità.
Come femministe e transfemministe siamo contro la guerra perché:
– la guerra è uno stato di emergenza costante, che conosce dei momenti di forte tensione sfociando spesso in guerra aperta, come la situazione dell’Ucraina e di molti conflitti presenti nel mondo sta a testimoniare. Ma la guerra è sempre presente nel nostro quotidiano, anche in tempo di così detta pace, perché è uno strumento di potere.
– la guerra alimenta le politiche di sfruttamento degli stati, le diseguaglianze, le discriminazioni.
– la guerra alimenta il capitalismo e le spese militari sottraendo risorse alla sanità, all’istruzione, alle spese sociali, ai settori che potrebbero consentire una vita migliore per tuttu e una maggiore autonomia delle donne e delle varie soggettività.
– la guerra è uno strumento di dominio che impone sfruttamento, morte, povertà, repressione,
migrazioni forzate, campi di reclusione e di prigionia, campi profughi, luoghi dove si consumano sudditanza, sopraffazione, violenze, stupri.
Come femminsite e transfemmniste siano contro la guerra concretamente agita ma anche contro la cultura della guerra, contro il militarismo in quanto tale perchè:
– il militarismo è espressione di maschilismo e di sessismo. Esalta il culto della forza, l’aggressività, l’esercizio della violenza, la gerarchia, i ruoli e la subordinazione. Esalta il culto del maschio vincitore, l’idea di virilità espressa attraverso il suprematismo maschile. L’apertura dei ranghi delle forze armate a donne e soggettività non maschili non è un fattore di emancipazione, ma solo un processo di integrazione nella cultura militare sessista.
– la cultura militare è quella di cui sono imbevuti moltissimi autori di violenze e femminicidi, come sta a testimoniare il fatto che l’8,5% dei femminicidi, in Italia, sono compiuti da uomini in divisa.
– il militarismo e le guerre usano spesso lo stupro e la violenza sessuale come arma di guerra.
È stato così in Bosnia, in Somalia, in Afghanistan, in Siria e in molte altre zone di conflitto.
– il militarismo strumentalizza le donne. Negli scenari di guerra, soprattutto dell’area medio orientale e del sud del mondo, spesso gli interventi militari delle potenze sono giustificati anche con la pretesa colonial razzista di liberare le donne dall’oppressione. Le donne vengono in modo violento e strumentale poste al centro di uno scontro di civiltà ideologicamente invocato per giustificare l’ordine occidentale del capitale e le sue istituzioni.
Ma anche nei contesti di così detta pace, nelle nostre città, il militarismo strumentalizza le donne per interventi securitari. Non vogliamo le strade invase di militari che danno un’immagine violenta e inquietante alle nostre città. Non ci sentiamo più sicure davanti a un mitra. L’operazione “Strade sicure” non è mai stata utile alle donne e alle libere soggettività. Lo abbiamo gridato tante volte: le strade sicure le fanno le donne e tutte le libere soggettività che le attraversano. In libertà e senza scorte.”